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RGPD: il diritto all'oblio e l'obbligo di limitare la diffusione di contenuti diffamatori

{ PUBLIE_LE } : 17/05/2024 17 mai mai 05 2024

Con l'ordinanza n. 9068/2024 del 5 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha confermato la responsabilità di una società di produzione televisiva privata, che aveva pubblicato un servizio video ritenuto diffamatorio, per non aver adottato misure adeguate a limitare il danno causato dalla diffusione del contenuto.

Il caso nasce da un programma televisivo trasmesso nel 2014 in cui l'emittente televisiva raccontava la storia di una donna, dipendente di una struttura sanitaria, che nel 2011 aveva dovuto subire un intervento al cuore nella struttura in cui lavorava. Durante l'operazione, una vite di tre centimetri è rimasta nel corpo della paziente, che ha dovuto subire un ulteriore intervento in un altro ospedale. Dopo aver denunciato l'accaduto alle autorità giudiziarie, la paziente/dipendente è stata licenziata dalla clinica. Dopo essere stata reintegrata in seguito ad una procedura legale, è stata nuovamente licenziata per motivi di riorganizzazione sindacale.

L'emittente televisiva è stata quindi citata in giudizio dalla clinica citata nel servizio televisivo. Il Tribunale di Catania ha condannato l'emittente al risarcimento del danno non patrimoniale e alla rimozione, a proprie spese, dal proprio canale YouTube e dai principali motori di ricerca, di tutti i video e le notizie che riproducono il servizio televisivo.

Il Tribunale di Catania ha condannato l'azienda a risarcire i danni morali e a rimuovere, a proprie spese, tutti i video e le notizie che riproducono il servizio televisivo dal proprio canale YouTube e dai principali motori di ricerca. La Corte d'appello ha confermato questa decisione nel 2022.

Il canale televisivo ha contestato il fondamento delle decisioni nel merito (articolo 17 RGPD: diritto alla cancellazione dei dati), sostenendo che i fatti erano precedenti all'entrata in vigore del RGPD.
Ma la Corte ha ritenuto che il principio del "diritto all'oblio" fosse già ampiamente presente nella giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza del 13 maggio 2014, causa C-131/12, Google contro Spagna) e negli articoli 7 e 8 della CEDU.

Di conseguenza, il canale è stato ritenuto responsabile in quanto avrebbe dovuto attivarsi per richiedere la rimozione o la limitazione dell'accesso ai contenuti diffamatori, collaborando attivamente con i gestori dei siti che li avevano diffusi (YouTube in particolare).

La Corte ha così stabilito il principio secondo cui i responsabili di un contenuto diffamatorio devono dimostrare di aver adottato tutte le misure possibili per informare e persuadere i terzi della natura diffamatoria e lesiva della pubblicazione (obbligazione di mezzo e non di risultato).
 

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